Genova alle radici dell’Argentina campione del mondo

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Salvarezza, Ratto, Liberti, e poi Baglietto, Scarpatti e Brichetto. Sembra il citofono di una palazzina nel centro di Genova. Oppure l’inizio della formazione della Rivarolese letta al microfono dallo speaker del “Torbella”. Invece, nel nostro caso, no: sono le origini del calcio argentino. Il calcio campione del mondo. Ma andiamo con ordine.

Siamo alla fine del XIX secolo. Gli equipaggi delle navi inglesi sbarcano nella darsena di Buenos Aires, hanno da ingannare il tempo in attesa di ripartire, e in qualche spiazzo improvvisano un campo da football, o anche da soccer: due pali, giubbotti e maglie a segnare le porte, un pallone raffazzonato al quale tirare calci, e il divertimento può cominciare.

Dapprima da lontano, poi più vicino, infine dentro il terreno di gioco, a far numero, incuriositi, un gruppetto di ragazzi di origine italiana – per lo più genovesi, residenti nel quartiere della Boca – prendono coraggio e si mischiano con i marinai di Sua Maestà, imparando regole e segreti di questo nuovo passatempo così originale e divertente.

Talmente divertente da farsi squadra e da competere – alfine anche battendoli – con i marinai inglesi. Due gruppetti, dapprima: i “Rosales” e i “Santa Rosa”. I primi, a ricordare un veliero – il “Rosales” – affondato proprio in quei giorni; i secondi perché unitisi il giorno di Santa Rosa, il 30 di agosto. Matrice comune? Una: tanti genovesi, immigrati recenti o figli di immigrati.

Un bel giorno i due gruppi si fusero, e la leggenda racconta che il nome venisse dalle casse sbarcate dai mercantili inglesi, che recavano scritta la destinazione: “The River Plate”.

Il River Plate all'inizio del Novecento
Il River Plate all’inizio del Novecento

Insomma, come ricorda una targa posta nel portico della chiesa di San Giovanni Evangelista della Boca – il variopinto quartiere popolato in gran parte da Genovesi e Liguri – il 25 maggio 1901 nasce il River Plate.

I colori non possono essere che il bianco e il rosso: quelli di Genova e San Giorgio, “venduti” secoli prima persino alla corona di Inghilterra. Il presidente è Enrique Salvarezza, genovese, ma con lui anche l’architetto Enrique Zanni, Livio Ratto, Bernardo Messina, Pedro Pellerano e Enrique Sommaruga.

Passa qualche anno, e la sede sociale viene trasferita dapprima al barrio “Palermo”, abitato da immigrati del Belpaese, e poi nel più ricco quartiere “Belgrano”, dal nome del celebre condottiero di chiare origini genovesi, la cui statua campeggia ancora oggi nella luminosa Piazza Tommaseo, nel primo Levante della Superba.

Ma perché cambiare aria? Forse perché non molto tempo dopo, nell’aprile 1905, un altro gruppo di ragazzi di origine genovese (e, con loro, anche una pattuglia di immigrati da Muro Lucano), aveva fondato – sempre alla Boca – un altro club.

Una delle prime formazioni del Boca Juniors

Oh, perché sia chiaro: in quel breve volgere di tempo, club calcistici ne erano nati a decine. Alcuni duravano pochi calci, altri iniziavano a radicarsi. Quel piccolo gruppetto guidato dal giovanissimo Esteban Baglietto si era inizialmente installato a casa del giovane promotore, il cui padre, però, non era propriamente d’accordo. Su niente. Né che la sede fosse a casa sua, né che il presidente fosse suo figlio, che tra parentesi, essendo minorenne, non aveva i requisiti di legge.

Il capitale sociale, per così definirlo, era costituito da un pallone regalato ai fondatori da un marinaio inglese. E poiché le prime divise bianconere erano andate rapidamente distrutte, si pose il problema di adottare una nuova divisa sociale.

Un certo Giovanni Brichetto, ligure – probabilmente tigullino – anche lui, che faceva il guardiano del faro all’ingresso del porto di Buenos Aires, nell’incapacità di mettersi d’accordo suggerì: i colori della prima nave che vediamo spuntare dal molo saranno i nostri. Sbucò un mercantile battente bandiera svedese, gialla e blu. Da lì nacque una divisa considerata tra le più belle dell’intero panorama mondiale.

Primo ad essere fondato, il River Plate fu anche la prima squadra ad essere promossa in Primera Division, nel 1908: vi sarebbe rimasto ininterrottamente fino all’inopinata retrocessione del 2011. Il Boca vi arrivò cinque anni più tardi, nel 1913, e non mollò più l’osso.

Da allora, e sono oltre cento anni, nacque una rivalità fortissima, aspra, dura, non di rado da codice penale. Da una parte i “Millionarios”, che nel 1930 acquistavano Bernabè Ferreyra dal Tigres a peso d’oro, letteralmente; dall’altra gli “Xeneises”, i figli del popolo.

Lo stadio del River

Sotto la guida di un altro celebre figlio della Lanterna, Antonio Vespucio Liberti, i “Millionarios” iniziarono la costruzione dello stadio intitolato al loro presidente – che fu anche presidente del Torino, nella seconda metà degli anni Cinquanta, a rafforzare un legame con la squadra granata sorto all’indomani della tragedia di Superga – ma noto al mondo come il “Monumental”.

Ed era ligure, probabilmente dell’entroterra chiavarese, anche Camillo Cichero, il presidente del Boca Juniors che diede il là alla costruzione dell’altro tempio del calcio argentino: la “Bombonera”.

Lo stadio del Boca

Insomma, una gara a rincorrersi, a superarsi, a dominare in una patria calcistica dove avversarie tutt’altro che addomesticabili non mancano: le squadre di Avellaneda (Racing Club e Independiente), il San Lorenzo de Almagro caro a Papa Francesco, le formazioni di Rosario – Newell’s Old Boys e Rosario Central – e quelle di La Plata, Estudiantes e Gimnasia, e ogni tanto qualche outsider, come il Velez Sarsfield e l’Argentinos Junior.

Dire quale delle due squadre sia “davanti” è praticamente impossibile. In patria, per trofei vinti, è davanti il River Plate, ad oggi – con quello appena vinto – 38 campionati a 35; in giro per il mondo, il Boca Juniors è al terzo posto insieme al Milan e all’Independiente, dietro al Real Madrid e agli egiziani dell’Al-Ahly.

E il “Superclasico”, il derby argentino per antonomasia, è uno di quei momenti in cui l’intera Buenos Aires si ferma: per la tensione sportiva, e anche per quella emotiva, se vogliamo anche sociale e antropologica.

Storie con partenza comune ma con evoluzione diversa, però. Nate entrambe alla Boca, origine genovese per il posto e per la squadra (“… un’atra Zena ghe fan”, dicevano dei nostri antenati che trovavano rifugio lontani dalla Lanterna), i biancorossi si imborghesirono cambiando sede, e diventarono – anche nei luoghi comuni che i tifosi si scambiano – la squadra della “upper class” porteña, I Millionarios, contrapposti ai “Bosteros”, dalla parola “Bosta”, che nel dialetto del Rio della Plata indica gli escrementi di cavallo che all’epoca venivano cotti in una fornace di mattoni in zona Boca Juniors: un nomignolo dispregiativo che però i tifosi del Boca trasformarono in punto d’onore. Per fare un paragone dalle nostre parti, solo a Milano si trova qualcosa di simile, anche se ormai con riferimento al passato: interisti = bauscia, milanisti = casciavitt.

Ma non solo MIllionarios, quelli del River: anche “Gallinas”, da quella volta – finale della Copa Libertadores 1966 – che, in vantaggio per 2-0, si fecero rimontare e battere dal Penarol di Montevideo. Da allora, una gallina in campo è uno scherno rivolto dai “Bosteros” ai “Millionarios”.

E, con l’appartenenza più o meno presunta alle classi agiate o a quelle del popolo, arrivarono velate anche le malignità su presunti favoritismi di regime ai Millionarios, prova dei quali sarebbe stata la centralità del “Monumental” durante il Mundial 78 e l’esclusione della “Bombonera”, visto che l’altro stadio della capitale utilizzato era stato quello del Velez Sarsfield. Altra conseguenza: se il River è la squadra delle appartenenze, tifare Boca diventa un piccolo segno di non allineamento.

Così, nell’immaginario popolare, il River è la squadra affidabile, cinica e vincente, il Boca quella estrosa ma capace di tradimenti inattesi.

Quanto ai rapporti con Genova, ormai pochi nella sostanza quelli del River Plate. Molto più intensi quelli con Il Boca e, più in generale, con la Boca. Intanto quella scritta – Xeneises – che campeggia sulle maglie degli “Azul y oro”, e che richiama alle origini. Poi perché, girando, non mancano i riferimenti alle squadre di Genova – entrambe, è giusto sottolinearlo – con relativi simboli e bandiere. Quasi una terza squadra genovese, come per certi versi il Galatasaray può essere considerata la quarta, visto che Galata fu colonia della Superba per tanti secoli.

Sondaggi più o meno attendibili dicono intanto che le due portaerei del calcio argentino si dividono circa il settanta per cento del tifo albiceleste, con sei/sette punti percentuali di differenza a favore degli Xeneises. Che non sono quindi “La mitad mas uno”, come recita un loro mantra, ma non ci vanno poi così lontano. Come non sono così lontani i tifosi del River Plate, “el mas grande de Argentina“.

Che ha appena rivinto il tiolo, succedendo – ma guarda un po’ – agli eterni rivali del Boca. Ma piange ancora per quella volta, 1966, con il Penarol. Che altro non vuol dire che “Pinerolo”. Ma questa è un’altra storia.

Giuseppe Viscardi

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