A Julio Velasco l’Oscar di Stelle nello Sport

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Uno dei tecnici più vincenti al mondo, artefice dell’Italia dei “fenomeni”, ma anche e soprattutto “professore” di pallavolo e di sport. Divulgatore di valori e di cultura sportiva. A Julio Velasco abbiamo avuto l’onore di consegnare uno dei nostri “Oscar” e questa lunga intervista esclusiva è un vero e proprio manifesto dello Sport. Come piace a noi!

C’era una volta, e c’é ancora a insegnare, Julio Velasco…la fiaba più bella della pallavolo (di Federico Burlando)

Questa è una favola e sembra quella di Cenerentola, ma non lo è. O meglio ancora, sembra una favola e quella di Cenerentola, ma in realtà è tutta una Leggenda e tutta vita reale, non si sa più dove finisce l’una e dove comincia l’altra. È una storia di tante parole, ma per una volta non troppe. E non troppo poche. Calibrate. Magiche. Ridondanti non perché eccessive, ma perché echeggiano di cuore in cuore con l’allegria e la semplicità delle campane, ma senti il loro peso. Julio Velasco viene da La Plata, che è praticamente Buenos Aires, che poi sarebbe la più Europea delle capitali di tutte le Americhe. Ma potrebbe tranquillamente venire dalla Macondo di Cent’Anni di Solitudine, un valente e colto condottiero alla Aureliano Buendía che da un momento all’altro mutua la vita da orologiaio in un’epopea da guerriero.

Don’t Cry for Me Argentina, piangi per la tua libertà

Julio Velasco ha tutto una vita sin troppo reale prima di diventare Julio Velasco: vende case anche se odia farlo perché, anche se laureato, non può spiegare filosofia, e non può farlo perché nella sua Argentina ci sono i Generali. Un giorno gli entrano i soldati in casa, devono arrestare suo fratello che è un oppositore del regime e crede siano venuti per lui. Raul, così si chiama, effettivamente in carcere ci finirà e ne uscirà, 2 suoi giocatori no. Puff, scomparsi nel nulla. Non è questa la magia della favola. Nel 1989 ormai da quasi 10 anni in Italia e ad appena 3 da Tangentopoli spiegherà:

“Non mi sento uno straniero: io amo l’Italia, così come gli italiani che sono in Argentina amano l’Argentina, anche se vanno ancora a bere il caffè ristretto in un bar di calle Florida. Io, argentino, mi riconosco in quegli italiani. Non mi sono ancora abituato invece al modo leggero con il quale si parla di politica in Italia. ue miei giocatori sono scomparsi, mio fratello è stato in prigione. E adesso c’ è sempre qualcosa di non detto dentro di me. Ero in un gruppo studentesco all’ Università, ma per me non è facile dire che sono stato un militante politico di sinistra. Ho sempre l’impressione che possa venire qualcuno e punirmi per questo”

Comincia ad allenare a pallavolo perché deve raggranellare qualche palanca in più per campare un po’ meglio, nel 1979 a 27 anni ai ragazzi della sua prima squadra importante, il Ferro Catil Oeste dice: “Io non sono vostro amico, io sono qui per far vincere una squadra”, arrivano subito 3 campionati nazionali e poi da vice dell’Albicelste un bronzo ai Mondiali di casa.

È il brillante e rampante Giuseppe Cormio a scoprirlo e a portarlo nella sua Latte Tre Valli Jesi, nel cuore della provincia di un’Italia che è ancora molto provinciale. E qui che scatta l’abracadabra.

La Generazione dei Fenomeni, la Miglior Squadra di sempre

Quando Eravamo Re…

Quando eravamo re

Si diceva di Cenerentola. Ecco, non è l’Italia della Pallavolo ante Velasco. Lo spiega, cos’era quella Italia, Gianni Mura subito dopo la vittoria del primo Mondiale, nel 1990: “Si andava in Bulgaria, vent’anni fa, e si poteva perdere anche col Belgio, si finiva a Yambol (posto terrificante) a giocare con la Mongolia e il Venezuela per conquistare un quindicesimo posto che non importava nulla a nessuno. Allora, perdere 3-0 con le squadre dell’est era normale, già bravi a tenerli in campo più di un’ora”.

Non era un nulla assoluto, ma per vincere qualcosa c’erano voluti due fattori irrepetibili. Il primo una botta di sfortuna per lo sport: il sabotaggio sovietico delle Olimpiadi di Los Angeles 1984.

Il secondo è una fugace ventata di solipsismo che se si parla di Pallavolo e 1984 dovete proprio concedere a Stelle dello Sport: era capitato un Gian Luigi Corti, ovvero qualcosa forse di un po’ meno di un allenatore e un qualcosa di più, un Cuore da Leone. Che quel Bronzo sarebbe il primo a dire che non l’ha vinto lui, non da solo, c’era già, tra gli altri, Alessandro Lucchetta e Fabio Vullo, con Paolo, Bertoli, Dall’Olio, Ricchiello, e Prandi in panchina, ma in un articolo sui giganti dei volley andava ricordato uno dei tanti piccoli, grandi mondi di cui è stato un eroe.

Cenerentola è una ragazza con tutte le qualità, bellissima e dolcissima, a cui manca solo qualche lustrino e che qualche regale pupilla si accorga di lei per brillare. Julio Velasco semmai è Cenerentola e anche la fata turchina, o ancora meglio il mago che trasforma con un sortilegio tutto suo, ma soprattutto con un lavoro che sarà anche alchemico ma è soprattutto duro, una selezione smarrita nel limbo della mediocrità nella più forte squadra della storia. La Generazione dei Fenomeni. Trasforma i topolini in purosangue e gli fa balzare su tutti i podi, tranne che quello Olimpico più alto. È l’incantesimo, chi lo scatena e pure chi lo subisce.

Bisogna tuttavia rendere atto che i ragazzi che si ritrova per le mani comunque anche loro sono un po’ Cenerentoli. Sicuramente ci sarebbe voluto Velasco per fargli diventare un Dream Team quale non c’era mai stato prima e, a oggi, nemmeno dopo. Ma sarebbe ingiusto negare, oltre che il talento, gli altri meriti: dedizione assoluta alla causa, abnegazione, spirito di squadra e di sacrificio. Bravi ragazzi, grandissimi campioni, che rigano dritto e fanno parlare di sé perché non si parla quasi mai di loro fuori dalle cronache sportive, anche se diventano personaggi e un fenomeno di costume. Al centro della scena però c’è sempre Velasco, che oltre a tutto il resto è uno straordinario comunicatore. Mai banale, sempre puntuale. Un po’ smargiasso, e del resto legittimamente, ma senza boria. E soprattutto tanta sostanza dietro le frasi a effetto.

Eleva ai palcoscenici del trionfo questi campioni che non sapevano di esserlo praticamente subito: nel 1985 va alla Panini Modena, trova Luca Cantagalli, Lorenzo Bernardi, Andrea Lucchetta, “Fefe” De Giorgi e imbastisce l’ossatura della futura dinastia regnante del Volley, poker di scudetti in 4 anni. E poi nel 1990 a sorpresa  ai Mondiali in Brasile il primo acuto nella notte, è nata una stella grande come il sole, e sul suo Impero da quanto è vasto non calerà mai, Don Julio Velasco come Carlo V d’Asburgo.

2 Ori Mondiali, 3 Europei (con un argento), 5 World League (una memorabile a Genova), e un argento a Cinque Cerchi…l’Oro Olimpico sarà l’ossessione e la dannazione di una squadra che tra il 1990 e il 1996 recita poesie in boogie.

Così invece che una fiaba antica riadattata, sarebbe d’uopo dedicargliene una moderna, ma sempre con i rintocchi di una mezzanotte a far sfumare un sortilegio. Una Last Dance come quella dei Bulls di Jordan recentemente magnificata da Netflix. E del resto è proprio Velasco a esprimersi in questi termini alla vigilia di Atlanta ‘96, e chissà che quell’altro sornione e flemmatico capomastro delle panchine che è Phil Jackson non gli ha rubato l’espressione a favore dei suoi Tori Rossi:

“Da noi in Argentina c’è un detto: nessuno ci toglierà i balli che abbiamo ballato. E anche se ad Atlanta perdessimo tutti i set 15-0 non cambierebbe un’oncia della stima che ho per questi ragazzi. Nessuno ci leverà quello che abbiamo vinto. Nessuno ci leverà quello che abbiamo ballato”

La rivoluzione passa soprattutto da una nuova concezione di intendere il ruolo dell’allenatore: un management moderno a 360°, una nuova concezione culturale sui metodi d’esercizio, i ruoli, l’utilizzo della tecnologia. La comunicazione è una solo un ingranaggio di questo nuovo sistema per cui, più o meno giustamente, si sprecano i paragoni con Arrigo Sacchi. È la vocazione di tutti i grandi dello sport di richiamarsi in continuazione sebbene appartenenti a discipline diverse. E del resto proprio perché questo approccio sembra universale nella sua genuina genialità, a Velasco verrà offerta in contemporanea alla nazionale di Pallavolo anche quella di Basket, in disarmo (!), proposta rifiutata, e nel tempo si interesseranno a lui quasi tutte le grandi della Serie A di calcio.

Dopo Atlanta ’96 Inevitabilmente la parabola dell’allenatore declinerà discendente. Insomma, dopo che sei stato il migliore del mondo per 8 anni e che ti sei già assicurato il titolo di migliore della storia non puoi più ascendere, salvo che si cominci a tirare di pallavolo anche su Marte o dintorni. Ma non sarà un picco vertiginoso: intanto l’intuizione eccellente del Club Italia per la Nazionale femminile, una squadra formata dalle giovani più promettenti selezionate dalla Federazione, per permettere loro di allenarsi tutto l’anno senza lo stress legato alle competizioni con le proprie società; poi tra altre avventure coi club dello Stivale e Internazionali, porta l’Iran alla conquista e alla riconquista dei primi Giochi Asiatici della sua storia, e la sua Argentina (natia, ormai si considera italiano d’adozione) all’affermazione nei Giochi Panamericani. L’uomo invece non recede dai suoi fasti; continua ad essere fenomenale.

Uomo della gente, di sport e delle istituzioni

“Qual è la funzione dello sport in una società? Ci vuole la musica per un popolo, così è lo sport. Lo sport è simulazione di altre avventure, è orgoglio, è conoscenza di sé: è importante anche in una società consumistica come questa. La felicità è un mistero. Ma lo sport può dare sensazioni che non danno i soldi. Giocarsi tutto è una sensazione unica. E ad alto livello perdere è terribile: ma a quel livello puoi riconoscere i tuoi limiti e accettare che c’ è un altro migliore”

Di quell’Italia e di Velasco quindi il Palmares è solo il Sole più evidente di una galassia. C’è un messaggio –diecimila in realtà– da ascoltare bene. L’insegnamento maestro di una vita non comune, ma che ha nella semplicità l’elemento più sbalorditivo.

Tra le sue teorie più citate ed esemplificative, la cultura degli alibi. Ma Velasco, come tutto lo Sport, andrebbe portato nelle scuole tutti i giorni.

Nel 2019 dopo un terzo e ultimo passaggio a Modena si è definitivamente ritirato dal Coaching. Ma un insegnante non si può ritirare dalla sua vocazione.

È stato subito dopo nominato direttore tecnico del settore giovanile della Federazione Italiana Pallavolo.

Il 24 marzo 2022 ha incontrato al PalaMariotti di La Spezia gli allenatori di ogni grado della Liguria in un corso promosso dalla Fipav nazionale ed è stata l’occasione perfetta per consegnargli l’Oscar dello Sport di Stelle, ma soprattutto per lanciare a una nuova generazione quel messaggio eterno che in realtà è uno dei 10 mila:

Dobbiamo lavorare tutti per allargare la base. La pallavolo non è uno sport facile. Per questo dobbiamo metterci tutti grande passione per portare i ragazzi in palestra e strapparli ad altre abitudini meno salutari. Dico sempre che il campione lo troveremo più facilmente se aumenteremo i numeri dei praticanti e, poi, non è solo una questione di eccellenza ma anche di importante investimento educativo. Più ragazze e ragazzi giocheranno a pallavolo e migliore sarà il futuro di tutti, anche in termini di salute e risparmio di spese sanitarie. Non tutti diventeranno campioni ma il nostro obiettivo oggi e avvicinare di più i giovani allo sport e tenerli in palestra con tutta la nostra passione”

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