La Grande Sfida sarà l’occasione per vedere all’opera Goran Ivanisevic. “Ma si, mi mancherete anche voi”. Il croato salutò così i giornalisti nell’ultima conferenza stampa prima del ritiro. In fondo, dopo quel 9 luglio 2001, giorno del clamoroso successo a Wimbledon, Goran non aveva più niente da chiedere. E pensare che per 10 anni aveva lottato contro se stesso e i suoi fantasmi. E’ passata alla storia una sua frase, in cui c’era tutto il personaggio Goran. “Il mio problema? In ogni partita devo giocare contro cinque avverari: arbitro, folla, raccattapalle, campo e me stesso”. Un’altra volta aveva parlato delle sue innumerevoli personalità. Il Goran buono, il Goran cattivo e il Goran “SOS”, quello che doveva intervenire nel momento del bisogno. Nato jugoslavo, diventato il simbolo della Croazia, aveva un grande sogno: vincere Wimbledon. Nel 1992 fu stoppato da un magico Andre Agassi, nel 1994 Pete Sampras era inarrivabile. Nel 1998 non bastò l’impresa contro Krajicek in semifinale: nonostante l’orgogliosa resistenza, Sampras lo battè ancora, stavolta in cinque set. Durante la premiazione era distrutto, con le lacrime che si nascondevano in mezzo alla barba. Pensava che non ce l’avrebbe più fatta. E invece ha continuato a lottare con se stesso fino a quando, tre anni dopo, perse da Cristiano Caratti al Queen’s e dovette elemosinare una wild card. Nonostante una spalla a pezzi, fece il miracolo. Secondo molti, quel successo da numero 125 ATP, nella folle finale contro Pat Rafter, giocata di lunedì in un tripudio di colori e bandiere, è la più grande sospresa dell’Era Open. “Potrei anche ritirarmi domani, tanto sarò sempre il campione di Wimbledon. Mi hanno anche dato la cravatta del club” disse mentre stringeva a sè il trofeo. Tutti i croati ricordano dov’erano e cosa facevano in quel 9 luglio 2001. E probabilmente sarà lo stesso per l’8 settembre 2014, data del trionfo di Cilic a Flushing Meadows. Al suo angolo, commosso come non mai, c’era proprio Cavallo Pazzo Goran. Uno che le sfide, dai e dai, le vince sempre. Anche contro l’avversario più subdolo e ostico che ci sia: se stesso.
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